L’origine del simbolo dell’infinito e il suo legame con la poesia di Giacomo Leopardi. Un’esplorazione tra Matematica, Filosofia e Letteratura
L’origine del simbolo dell’infinito, rappresentato dal segno “∞”, risale al XVII secolo, quando il matematico inglese John Wallis lo introdusse per rappresentare una quantità senza fine.
Era il 1655 quando Wallis, nel suo trattato De Sectionibus Conicis, utilizzò per la prima volta il simbolo dell’infinito, basandosi probabilmente sul concetto di lemniscata, una figura geometrica simile a un otto rovesciato.
Nonostante le radici matematiche, questo simbolo ha assunto nei secoli un significato molto più ampio, diventando un emblema di eternità, di ciò che non ha né inizio né fine, applicato non solo nelle Scienze, ma anche in Filosofia, Arte e Religione.
Da dove nasce l’idea del simbolo
Wallis non ha mai spiegato esplicitamente perché scelse proprio questo segno per rappresentare l’infinito, ma ci sono diverse ipotesi al riguardo.
Alcuni studiosi ipotizzano che abbia voluto richiamare l’idea della ciclicità, del movimento continuo, come quello della figura geometrica dell’otto rovesciato che, in un certo senso, non ha mai una vera fine.
Altri suggeriscono che Wallis abbia ripreso il simbolo dall’antica notazione romana che utilizzava la lettera “M” per rappresentare numeri molto grandi, come il 1000. A ogni modo, grazie al suo operato, il simbolo è entrato ufficialmente nel mondo della Matematica e da lì si è diffuso anche in altri ambiti culturali.
L’infinito secondo Giacomo Leopardi
L’infinito, dunque, non è solo un concetto matematico, ma è diventato anche un simbolo che racchiude la nostra fascinazione per tutto ciò che va oltre i limiti della comprensione umana, evocando un mistero che ci attrae e ci sfugge nel contempo.
Un esempio sublime di questo uso simbolico si trova nella poesia “L’infinito” di Giacomo Leopardi. Il poeta di Recanati, con versi intensi e malinconici, riflette sull’immensità dell’Universo e sul desiderio umano di andare oltre i limiti imposti dalla natura e dalla propria condizione esistenziale.
Leopardi non cerca l’infinito nel cielo stellato o nei calcoli matematici, ma nel paesaggio che si apre davanti a lui, nel “colle solitario” e nella “siepe” che “da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”.
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La siepe diventa una metafora dei limiti sensoriali e intellettuali dell’essere umano, che, tuttavia, riesce a “immaginar” ciò che si trova oltre. Così, il poeta contempla uno spazio senza confini, che lo riempie di “interminati spazi”, “sovrumani silenzi” e una “profondissima quiete”.
L’infinito, per Leopardi, non è dunque solo un concetto astratto, ma una condizione interiore che evoca un senso di spaesamento e, allo stesso tempo, una profonda connessione con l’eternità.
La visione leopardiana ci insegna che il desiderio di infinito è intrinseco all’animo umano: siamo costantemente alla ricerca di ciò che ci supera, di un senso più grande che possa dare risposte ai nostri interrogativi esistenziali.
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